Polo dell’Itinerarium Rosaliae, l’Eremo di Santa Rosalia è meta di pellegrinaggi religiosi e culturali che attraverso sentieri immersi nei boschi e nelle aree protette dell’entroterra siciliano, conducono nell’angusta grotta in cui dimorò la Santa.
A soli 4 km dal centro abitato di Santo Stefano Quisquina sorge l‘Eremo di Santa Rosalia, che si allunga sul lato nord dell‘antica Serra Quisquina, nel cuore di un fitto bosco naturale che la circonda. L’Eremo, insieme al Santuario di Santa Rosalia sul Monte Pellegrino a Palermo, costituisce uno dei due poli dell’Itinerarium Rosaliae.
La storia dell’Eremo inizia con il ritrovamento, nel 1624, di un’epigrafe attribuita a Rosalia Sinibaldi che, secondo la tradizione, trovò dimora per ben dodici anni in una grotta della Serra mimetizzata della vegetazione e difficilmente accessibile, fuggendo dalla vita mondana ed in cerca di solitudine, di pace e soprattutto di Dio, prima di trasferirsi sul Monte Pellegrino. La grotta in cui dimorò la Santa è oggi visitabile attraversando prima uno stretto cunicolo per poi ritrovarsi un antro dove è stata posta una statua della Santa stessa.
Qualche anno dopo la costruzione della cappella, il mercante genovese Francesco Scassi venne a conoscenza della storia di Santa Rosalia e della grotta, e decise di trasferirsi in Sicilia e investire tutto il suo denaro nella costruzione dell’Eremo. Dopo avere edificato la chiesa, delle cellette, una cucina e una stalla, decise di ritirarsi e di vivere lì con altri uomini. Questi fonderanno una congregazione indipendente di frati devoti a Santa Rosalia che con il tempo diventerà del tutto autosufficiente: il frantoio, il granaio, la calzoleria, la falegnameria e quant’altro si trova all’interno dell’Eremo.
La fama e la prosperità portarono all’Eremo moltissimi nuovi frati così i Ventimiglia, Baroni di Santo Stefano Quisquina, ampliarono e arricchirono la struttura, portandola a poter ospitare fino ad un centinaio di frati.
Alla fine del XIX secolo numerosi episodi contribuiscono al declino della congregazione che nel 1928 viene sciolta e i frati cacciati dalla struttura. Ma i frati restarono all’Eremo e l’ultimo eremita noto è Frabbicè (Frate Vincenzo) è morto nel 1986 all’età di 98 anni.
Grazie all’interessamento del Principe Ventimiglia, vennero ceduti agli stefanesi il 25 settembre 1625 alcuni frammenti delle reliquie della Santa, che vennero collocate in un mezzobusto raffigurante Santa Rosalia. Il busto è conservato nella Chiesa Madre e viene portato ogni anno in pellegrinaggio a piedi all’Eremo il martedì successivo alla prima domenica di giugno.
di Salvatore Presti
« Una tradizione fa derivare il nome Quisquina dall’arabo Koschin che significa “luogo oscuro”, accezione quanto mai appropriata per indicare (e definire) il luogo in cui si trova l’Eremo di Santa Rosalia. La Quisquina, infatti, è posto misterioso in cui sono accaduti, in varie epoche, tutta una serie di fatti degni della massima rilevanza.
Era il 1821, l’Europa in fiamme subiva i primi contraccolpi della cultura reazionaria impostasi col Congresso di Vienna e August Schweigger, medico e naturalista tedesco, veniva trovato cadavere nel bosco che circonda il convento. A ucciderlo, a quanto pare, la sua guida, forse per derubarlo, magari per battere anche nell’hinterland dell’agrigentino un fatale colpo rivoluzionario.
Era il 9 luglio 1945 quando Monsignor Giovan Battista Peruzzo, vescovo di Agrigento, viene ferito con due colpi di moschetto. Il vescovo verrà operato d’urgenza su un tavolaccio del refettorio da medici del paese che di fatto gli salveranno la vita. L’indagine individuerà tre frati dell’Eremo quali colpevoli. Il monsignore si era permesso di allontanare un loro compagno accusato di avere eliminato una ventina di anni prima il priore del convento e addirittura minacciava di cacciare via i frati. L’episodio, raccontato da monsignor De Gregorio, nel libro intitolato al vescovo, viene ripreso recentemente da Andrea Camilleri nel volume “Le pecore e il pastore”, in cui racconta dell’attentato (in maniera piuttosto approssimativa a sentire gli anziani testimoni locali) e indaga su dieci monache di un convento di Palma di Montechiaro che sacrificarono la propria vita rifiutando il cibo e immolandosi per la salvezza del vescovo.
Erano gli anni ‘70 e l’ultimo monaco della Quisquina, l’ormai mitico Frabbicè, si aggirava per le vie del paese a chiedere l’elemosina, seguito da una coda di ragazzini festosi. Lui si arrabbiava, fingeva di cacciarli via, sorrideva. Frabbicè era patrimonio della comunità, e incarnava in sé alla perfezione lo spirito dei luoghi e del tempo.
Era tra il 1986 e l’87 quando un frate francese di passaggio chiese e ottenne di poter soggiornare all’Eremo, allora vuoto. Fu accolto dalla comunità stefanese prima con curiosità, poi con crescente rispetto per la discrezione che mostrava e per questo attaccamento alla povertà che già a quei tempi suonava come mistico.
A un certo punto il frate, per come era venuto, sparì e non se ne seppe più niente per alcuni mesi, fino a quando, almeno, il suo cadavere non fu trovato a Favara. Si venne a sapere che si trattava di un delinquente francese in fuga che per nascondersi meglio si spacciava per religioso ed era stato raggiunto dai suoi sicari perfino nel cuore della Sicilia.
L’Eremo della Quisquina fa di questi scherzi, attrae persone improbabili, altre ne seduce, qualcuno lo vede morto, qualcun altro ferito, qualcuno in fuga: la sua pietra diaccia contro il cielo – all’interno di un fitto bosco in un luogo in cui per circa sei mesi l’anno non arrivano i raggi del sole – lo rende un monumento necessario alla santità e all’oscurità che ogni scelta estrema comporta.»